L'era digitale si definisce come “quel tempo che comprende l'inizio, l'apogeo e il culmine della rivoluzione digitale e informatica della fine del ventesimo e dell'inizio del ventunesimo secolo”. Dunque, in tale contesto storico è necessario che il panorama giuridico si adatti all’evoluzione tecnologica per non restarne, altrimenti, travolto. Il processo, sede primaria di tutela dei diritti, deve mutare forma, recepire i nuovi strumenti a disposizione e farli propri. Infatti, non può esserci diritto senza una effettiva tutela giurisdizionale: difesa e azione devono intendersi come facce della stessa medaglia, legate dal medesimo fine, l’una essenza dell’altra. Se da un lato, in ambito civile e amministrativo passi in avanti si sono già fatti, dall’altro non è più ammissibile lasciare scoperto l’ambito penalistico. Nel 2020 la crisi pandemica e la conseguente esigenza di non bloccare i procedimenti di fronte alla distanza fisica, non ha lasciato alternative. Da quel momento, molteplici sono stati gli interventi del legislatore per arrivare all’attuale normativa della riforma Cartabia (legge n.134 del 2021): essa rappresenta un forte segnale volto a favorire una vera e propria transizione informatica. Appare evidente, anche se ancora in fase embrionale, il fine di creare un unico ecosistema digitale per il processo penale, che porti nel prossimo futuro ad una totale rivoluzione, così come prospettato nella legge delega. Già da tempo l’Unione europea ha dato segnali in questa direzione, ma la nuova disciplina non vuole essere un mero riflesso del volere sovranazionale. Essa è frutto della consapevolezza di quanto i diritti fondamentali possano rimanere vuoti se non continuamente alimentati e protetti rispetto la richiesta della realtà storica.
In particolare le innovazioni più rilevanti si riscontrano nel Libro II del codice di rito, dedicato agli atti del procedimento. Il novellato art.110 c.p.p. dispone al primo comma: “Quando è richiesta la forma scritta, gli atti del procedimento sono redatti e conservati in forma di documento informatico, tale da assicurarne l’autenticità, l’integrità, la leggibilità, la reperibilità, l’interoperabilità e, ove previsto dalla legge, la segretezza.” Di qui, l’affermazione di un nuovo paradigma di atto processuale, che lungi dal porsi quale semplice alternativa al formato analogico, si impone come obbligata prima scelta in tutte le fasi del procedimento. In coerenza con l’obiettivo della nuova riforma, gli articoli 111-bis e 111-ter c.p.p., per la disciplina del deposito telematico, sono volti ad assicurare la certezza, anche temporale, dell’avvenuta trasmissione e ricezione degli atti, nonché l’identità del mittente e del destinatario. Integrità, autenticità, accessibilità, leggibilità ed interoperabilità sono altresì i requisiti richiesti per la conservazione e formazione dei fascicoli telematici: un accesso veloce e agevole come sinonimo di maggiore effettività del diritto di difesa delle parti.
Nel processo penale, ancor più che in ambito civile e amministrativo, i diritti della persona assumono un ruolo di primazia: in ciò si giustifica la maggiore resistenza verso i nuovi sistemi digitali, visti dai più come fonte di rischio, piuttosto che come strumenti per l’incremento della tutela. Alla luce dell’articolo 111 della Costituzione, come riformato con l. Cost. n. 2/1999, la legge garantisce la “ragionevole durata” del “giusto processo”. In questo senso la transizione digitale deve essere intesa come ausilio per le parti e mezzo per raggiungere un comune obiettivo; infatti, nel bilanciamento di valori, la speditezza processuale mantiene come limite l’effettività dell’accertamento giudiziale e la tutela sostanziale dei diritti soggettivi.
In termini generali, Il documento è il mezzo attraverso cui far conoscere un fatto. Ciò che distingue il cartaceo dall’informatico è la presenza o meno di un supporto materiale, ossia la cosiddetta dematerializzazione: ricordando le parole di Renato Borruso, “registrare dati nelle memorie di un computer è un nuovo modo di scrivere: con un nuovo alfabeto {…} su un nuovo supporto”.
L’art.1, lett p, CAD definisce il documento informatico come “il documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”.
La riforma Cartabia, attraverso il comma 5 dell’art. 1, concretizza l’ipotesi dell’atto nativo digitale nel processo penale: la forma prescelta si considera irrilevante, purché in grado di rispettare la normativa sovranazionale, in particolare il regolamento eIDAS 2014/910/UE, e quella nazionale, anche di rango secondario: determinante, infatti, è la presenza dei requisiti idonei ad assicurare l’autenticità, l’integrità, la leggibilità, la reperibilità, l’interoperabilità e, ove previsto dalla legge, la segretezza. Di qui la domanda: “Come ciò può essere garantito?”
In tale contesto, come nelle disposizioni successive, il legislatore utilizza la tecnica del richiamo normativo, così escludendo il recepimento delle specifiche regole tecniche, che avrebbe comportato un continuo e dispendioso adattamento. Data la costanza e la velocità dell’evoluzione digitale, è apparsa logica la scelta di un meccanismo automatico che eviti del tutto possibili disallineamenti. In ogni caso, un atto sarà legittimamente utilizzabile solo se può dirsi “certa” la sua provenienza, ossia quando in presenza della relativa firma digitale. L’idea è la stessa che guida i traffici giudici nel mondo analogico: la sottoscrizione quale mezzo di prova della volontà negoziale, nonché strumento tecnico-giuridico che permette un collegamento univoco con il firmatario. Di conseguenza, il decreto-legge n. 137/2020 disciplina espressamente le nuove ipotesi di inammissibilità dell'impugnazione, che si aggiungono a quelle stabilite in via generale dall'art. 591c.p.p., fatte espressamente salve.
In questo settore lo sviluppo della giurisprudenza è ancora in una fase primordiale, ma si possono già delineare alcuni punti fermi, tra cui il ruolo centrale dell’originalità del documento.
La Corte di Cassazione sezione penale, con sentenza n. 2874/2022, ha respinto il ricorso contro l’ordinanza che aveva dichiarato l’inammissibilità dell’atto d’appello per mancanza della firma digitale. Si trattava di un atto “firmato manualmente e materialmente dal difensore, scannerizzato e inviato dalla PEC esclusiva dello studio del difensore stesso”. Secondo la Consulta si tratta di modalità non idonee tanto con riferimento al decreto-legge n.137 del 2020, quanto al provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati 2020: dalle caratteristiche ivi designate si giustifica la “conseguente inammissibilità propriamente tecnica della pura e semplice scansione di immagini”, dalla quale risulta un file non contente il ‘testo’ del documento, bensì “solo una sua riproduzione grafica”, nonostante l’eventuale estensione “pdf”.
La Corte sottolinea come la firma digitale non si limiti ad essere “una firma elettronica qualsiasi”, ma “un particolare tipo di firma qualificata basata su un sistema di chiavi crittografiche, avente l’attitudine di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico (art.1 d.lgs. n.82/2005)”. Di qui si evidenzia la differenza concettuale tra atti ed allegati, in quanto gli uni entrano nel procedimento quali originali, gli altri come copie conformi ad originali. Nel caso di specie, osserva la Consulta, “l’originale dell’atto d’appello non è mai pervenuto in quanto tale nella sfera del destinatario”, poiché “è sempre rimasto a mani di chi l’ha trasmesso, senza dunque essere mai giuridicamente uscito dalla sua sfera di dominio”.
Dall’altra parte, la giurisprudenza suole considerare illegittimo il solo atto totalmente privo della firma e non invece quello colpito da mere irregolarità, come dimostra la sentenza n. 40540/2021 della Sezione VI penale. Nel caso di specie, la Corte ha accolto il ricorso avverso un’ordinanza del Tribunale del Riesame che aveva dichiarato l’inammissibilità dell’appello presentato per la mancata sottoscrizione digitale del medesimo da parte del difensore. L’ipotesi qui considerata è quella di una modifica successiva del documento informatico, che secondo il ricorrente non avrebbe inciso né sull’integrità né sull’attendibilità della firma dell’atto di appello. Di qui, alla luce del principio di tassatività, con la sentenza in commento la Cassazione censura la scelta del Tribunale di equiparare la modifica successiva alla mancata sottoscrizione da parte del difensore: come per ogni causa di inammissibilità relativa al diritto di impugnazione nel processo penale, si vuole impedire l'estensione ad ipotesi analoghe di irregolarità delle modalità di trasmissione, non contemplate esplicitamente dalla normativa.
In ogni caso, comune denominatore è l’essenzialità dei requisiti tecnici, delineati dal legislatore e richiesti ab substantiam, gli unici che consentono di assicurare riservatezza, integrità ed autenticità al documento. La firma digitale si basa su un sistema di crittografia moderno, e dunque sulla presenza di due chiavi legate univocamente tra di loro, l’una privata, l’altra pubblica: cifrare un documento informatico con la chiave privata equivale a firmare un documento cartaceo con la sottoscrizione autografa.
“Può, dunque, affermarsi che l'impugnazione che difetti di detti specifici requisiti non viene di fatto ad esistenza e, correlativamente, che solo l'accertata carenza di tali requisiti essenziali giustifica la sanzione della inammissibilità (sez. 1 n. 41098 del 15/10/2021)”.
Alla luce dei benefici apportati dalla transizione digitale, bisogna altresì considerare le ipotesi di possibili malfunzionamenti dei sistemi, che potrebbero compromettere la sicurezza e l’integrità dei traffici giudiziari. Di tale preoccupazione si è fatto carico il legislatore attraverso la stesura del nuovo articolo 175-bis c.p.p., prevedendo “soluzioni alternative ed effettive alle modalità telematiche che consentano il tempestivo svolgimento delle attività processuali”. Il malfunzionamento è ‘certificato’ quando inerisce in modo generalizzato i domini del Ministero della Giustizia. In questo caso ne viene attestata la data di inizio e di fine dal direttore generale per i servizi informativi automatizzati del Ministero della giustizia, poi comunicato agli interessati e stabilite le modalità per il ripristino. Al contrario, è ‘non certificato’ se riguarda solo uno specifico ufficio giudiziario e/o in ambito locale, comunque tale da impedire, per un tempo più o meno consistente, l’accesso alla modalità telematica. In questi casi la necessità di assicurare la completezza e la continuità del fascicolo informatico richiede un tempestivo ‘ritorno all’analogico’, così da non impedire la normale prosecuzione dell’attività. Allo stesso tempo, però, si esclude che da ciò possa derivare una causa di proroga o sospensione di diritto dei termini processuali. Infatti, nonostante la probabile compromissione di diritti fondamentali, come quello di libertà, la scelta appare coerente con la volontà di non concedere eccezioni al rispetto dei termini perentori previsti dal codice di rito. Ciò comporterà maggiori oneri in capo ai dirigenti che devono essere in grado di fornire soluzioni tempestive: oneri non dissimili da quelli oggi richiesti per la tenuta e conservazione dei fascicoli cartacei.
In conclusione, nella sua sostanza la riforma Cartabia vive di compromessi: la ratio è quella di recepire le nuove tecnologie per dar vita a un efficace ‘processo penale telematico’; allo stesso tempo, però, si prevedono ipotesi di deroga che lascino aperta una via di fuga verso l’analogico. Il legislatore deve essere consapevole di come il passaggio alla modalità digitale non possa avvenire senza che ci sia una graduale presa di coscienza di tutti gli operatori del settore. Il diritto positivo è insufficiente se non coordinato con il diritto vivente: la predisposizione dei nuovi strumenti, la loro conoscenza e interiorizzazione richiede tempo e collaborazione. La normativa emergenziale è stata la risposta in un momento di assoluta urgenza. La versione definitiva ha bisogno di tempo e nuovi bilanciamenti: dunque, di una disciplina transitoria che oggi manca, ma che la giurisprudenza, a voce unanime, reclama.